I due volti di Jackie, il corpo molteplice di Diana
Dopo il successo di Jackie alla Biennale del 2016 e dopo l’irruzione di Ema del 2019, Pablo Larraín è tornato a Venezia con un nuovo film a tema biografico, questa volta dedicato a Diana Frances Spencer, meglio conosciuta come Lady Diana.
Per quanti temono che Spencer possa essere una copia di Jackie, il nuovo film prosegue la riflessione avviata dal regista fin dai suoi primi film, dedicati alla dittatura cilena. A ben vedere, tutto il cinema di Larraín consiste in una riflessione sui rapporto tra sensibilità e potere che si sviluppa su larga scala. Ognuno dei suoi film vede la messa in conflitto tra le forme dello Stato e quelle del Capitale, tra la potenza territorializzante delle istituzioni e quella deterritorializzante del mercato e della comunicazione globale. Presi all’interno di tale conflitto sono le vite dei protagonisti, quasi sempre uomini o donne soli. Basti pensare al personaggio centrale di Tony Manero (2008), febbrilmente attratto dall’icona mediatica statunitense di John Travolta, ma sprofondato nel terrore della dittatura di Pinochet. Oppure pensiamo al protagonista di No. I giorni dell’arcobaleno (2012), il pubblicitario capace di proiettare il Cile fuori dalla dittatura ma soltanto per darlo in pasto al neoliberismo sfrenato degli anni Ottanta. La questione diventa dunque esplicita nei film espressamente dedicati a figure storiche e politiche come Neruda (2016), Jackie, Spencer.
Riprendendo la felice espressione utilizzata da Giacomo Tagliani in un libro dedicato al cinema italiano, quello di Larraín è un cinema “biografico-politico”. Ma se il ritratto di Jacqueline Kennedy era un’occasione per riflettere sulla forza del primo piano e del volto nel cerimoniale di Stato, quella su Lady D è una riflessione sul piano medio e sul corpo femminile sottoposto al potere politico, ma a sua volta capace di esprimere un’energia di rinnovamento alle soglie del nuovo millennio.
Dalle prime alle ultime inquadrature del film, Jackie è pallida, profondamente segnata. L’insistenza sul volto non è una semplice strategia per esaltare la recitazione dell’attrice né, tantomeno, una forma di accanimento sul trauma vissuto dal personaggio. Piuttosto, l’esposizione pubblica del potere e la sua efficacia costituiscono il tema stesso del film. Che cosa è opportuno rivelare di un’esperienza intimamente traumatica affinché l’immagine della ex coppia presidenziale possa passare alla storia? Come riuscire a controllare la propria immagine pubblica in un momento in cui nulla dentro di sé sembra tenere? È Jacqueline, la prima first lady nella storia degli Stati Uniti ad assumere un ruolo decisivo nella comunicazione politica. È l’attrice Premio Oscar Natalie Portman chiamata ad essere all’altezza di una delle più celebri icone femminili del Novecento. Al cuore di Jackie si trova dunque il volto e, con il volto, il primo piano, quand’anche si tratti di un salone sfarzosamente arredato, della facciata della Casa Bianca o della parata militare che accompagna il corteo funebre dell’ex presidente. Il volto non tanto considerato in sé come qualcosa di precostituito, un dato di fatto, una parte del soggetto, ma come tutto ciò che, subendo un certo trattamento visivo, si costituisce in quanto interfaccia: strumento di espressione, interazione, comunicazione, governo.
Jackie, o della “viseità” si potrebbe dire facendo riferimento alla riflessione che Gilles Deleuze e Félix Guattari hanno dedicato al volto in quanto emblema dell’efficacia e del potere delle immagini nella cultura occidentale e del quale hanno provato ad elencare alcune figure prima di elaborare una concettualizzazione astratta. Come interpretare, del resto, dal punto di vista simbolico l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy se non come un tentativo di distruggere il volto del potere. Che cosa succede all’immagine che esprime e identifica il potere politico quando la violenza irrompe inaspettatamente? Se, come messo in luce da storici e teorici come Ernst Kantorowicz e Louis Marin, la figura dell’uomo di potere e, in senso lato, le immagini che partecipano alla sua glorificazione costituiscono una forma secolarizzata di transustanziazione – un’“eucarestia del politico” –, come interpretare, come gestire, psicologicamente e mediaticamente, l’irruzione di un fiotto di sangue che buca l’immagine? Che significato sociale assegnare alla variante, tutta laica, del “Miracolo di Bolsena” costituita dal filmato Zapruder e impressa nella memoria collettiva del mondo intero come un momento critico dell’iconografia politica?
È Jacqueline, nella ricostruzione proposta da Larraín, a farsi carico di tali questioni. Se l’identificazione con la moglie di Lincoln nella sequenza girata all’interno della Casa Bianca sembra assegnarle il ruolo tragico e melodrammatico di una moderna Andromaca, l’omicidio del marito dà luogo a una trasformazione – un’inversione come quelle indagate da Aby Warburg nel suo Bilderatlas Mnemosyne – in una santa Veronica: la pia donna che – stando al Vangelo di Luca e soprattutto ai Vangeli Apocrifi – asciugò il volto insanguinato di Cristo con un panno di lino durante la Passione. Dall’esposizione pubblica del sangue impresso sul tailleur all’organizzazione dei funerali di stato, Jacqueline non si limita a dare sfogo alla sua vanità. Se esporre il volto alle telecamere era uno degli elementi decisivi del successo politico dei Kennedy, la scelta di forzare la propria famiglia, e con lei la politica americana, a una ri-esposizione pubblica dopo l’irruzione della violenza è il punto di maggiore interesse teorico dell’intero film.
Uscendo dal cinema, due immagini in primo piano di Jackie – inquadrato attraverso il finestrino dell’automobile – restano impresse nella memoria dello spettatore. La prima coincide con l’inquadratura nella quale il volto della donna coesiste in sovrimpressione con l’immagine sfuocata del popolo americano: un “bagno di folla” durante i funerali, risposta rituale a una crisi simbolica dell’istituzione statale, momento di ricongiungimento e inscrizione del corpo collettivo in quello individuale del potere. La seconda si trova nella sequenza finale, dopo che Jacqueline ha terminato il suo dialogo con il giornalista e dopo che ha suggerito a quest’ultimo di concludere l’articolo celebrativo del Presidente con un riferimento a Camelot, il musical di Broadway particolarmente amato da Kennedy. Qui Larraín mette il volto di Jackie di fronte ai suoi simulacri commerciali: i manichini del negozio di alta moda che riprendono esplicitamente il suo stile, marcando la portabilità mediatica della sua immagine, la disseminazione commerciale della sua icona.
Non il matrimonio, non gli ultimi giorni nella città di Parigi. Sono le feste natalizie. La Regina, il consorte Filippo di Edimburgo, Carlo, Diana e i loro figli, tutti seguiti (o preceduti?) da un apparato di militari, cuochi e aiutanti, si ritrovano presso la residenza di Sandringham. Le pareti gelide della vecchia dimora e le tradizionali attività di caccia sembrano garantire il mantenimento di una tempra robusta per i più anziani e la giusta educazione per i piccoli Henry e William. Ma qualcosa deve essere andato storto da qualche parte. Quando Spencer inizia, la storia di Carlo e Diana è già in crisi da un pezzo e forse non soltanto la loro storia. Larraín non la ricostruisce né, tantomeno, mira a rivelare retroscena. L’obiettivo non è produrre un ritratto realistico o storicamente attendibile, ma riconoscere a Diana Spencer lo statuto di “personaggio concettuale”, una figura reale e immaginaria al contempo, capace di incarnare lo spirito di fine secolo, una fase di svolta nel rapporto tra individuo, potere e società, nonché di toccare la sensibilità di milioni di cittadini e di spettatori, con la sua vita e con la sua morte.
Spencer è dunque prima di tutto il ritratto della donna più sola dell’universo, nei suoi giorni più bui. È il ritratto di una donna vittima del proprio contesto familiare e dell’impossibilità di tenere insieme la normatività e freddezza dei protocolli reali e un temperamento esuberante, che trova espressione nel rapporto con i figli (memorabile la sequenza del “gioco del Sergente”) e rilancio nel sistema dei media degli anni Novanta. Se le inquadrature riguardanti la vita della famiglia reale sono perlopiù totali con la macchina fissa oppure carrelli, la presenza di Diana segna l’irruzione della camera a mano e della musica jazz e pop, di uno sguardo mobile, percettivo, sensibile. Il corpo di Diana è l’oggetto sul quale pretendono di agire le forme di disciplinamento (l’atto della pesatura all’inizio e alla fine del soggiorno), affinché finalmente si lasci inquadrare nell’iconografia tradizionale. Ma la macchina da presa esalta i piccoli gesti e i movimenti che caratterizzano il suo corpo come un corpo dinamico, nervoso, moderno. L’impossibilità da parte di Diana di conformarsi all’orizzonte di valori e posture della famiglia reale innesca dunque un percorso melodrammatico, dove le fantastiche apparizioni spettrali di Anna Bolena – la moglie di Enrico VIII, condannata e uccisa per adulterio e alto tradimento – spingono e infine sollevano la Principessa da un programma suicida.
Contro il mito e la storia dei Windsor, quello che Diana rivendica è il diritto alla quotidianità. Ma questa rivendicazione – il desiderio di vestire, mangiare e vivere come tutti – tende a essere schiacciata sull’idea di “quotidianità” dei tabloid scandalistici. I suoi sfoghi diventano merce di scambio nella cerchia dei prossimi come negli ambiti della comunicazione di massa. Spencer è dunque il ritratto di una figura storica sintomale. È l’idea che anche un membro della famiglia reale possa ambire a tornare al proprio cognome da ragazza e rivendicare lo statuto di suddito, almeno per un pomeriggio ogni tanto. È la manifestazione di nuove posture e forme di vita, di una rinnovata idea della figura femminile in rapporto e in attrito con un potere politico fondato sulla tradizione.
Confrontandola con le apparizioni pubbliche del personaggio storico di Diana Spencer, l’interpretazione di Kristen Stewart è dunque straordinaria non tanto per la somiglianza, quanto per la resa espressiva (di fatto iperbolica) di alcuni tratti utili a dare forma alla figura concettuale di “fine secolo”. Dall’inizio alla fine, il personaggio si caratterizza per una fisionomia slanciata e per un’andatura scanzonata, a tratti fluttuante. Per questa via trova espressione il tema dei disturbi alimentari di Diana, al quale il film dà ampio spazio. Ma parlando di modelli iconografici, le inquadrature della donna chiusa nel bagno e i suoi gesti di sofferenza e autolesionismo richiamano alla memoria quei corpi contorti e lividi che emersero tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento nella cultura visuale europea. I corpi allungati e straziati – ma anche bellissimi, di una nuova bellezza – presenti nelle opere di autori come Klimt, Schiele, Kokoschka, tutti nati e cresciuti al tramonto di un grande impero.
Se Jacqueline Kennedy, nel ritratto di Jackie, è dunque per Larraín una figura dal duplice volto – al contempo arcaico e moderno, statale e commerciale –, Diana Spencer è una figura dotata di un corpo molteplice, poco avvezzo ai cerimoniali e agli ingombranti abiti di corte. Per chi ha visto il film, tutta la vicenda della giacca recuperata dallo spaventapasseri come ricordo del padre non fa che confermare questa linea interpretativa: anche il rapporto con la tradizione è per Diana qualcosa da indossare nel quotidiano, sognando un giorno perfetto nel quale, come tutti, anche la principessa possa mangiare fast-food insieme ai propri figli. È così che, quando si intuisce la fine di Spencer, si apre uno spazio per considerazioni di carattere genealogico e storiografico: Guglielmo il Conquistatore, Elisabetta la vergine… Più il tempo passa e più la storia tende a fare economia, riassumendo figure di portata epocale in un solo aggettivo. “Che aggettivo sarà utilizzato tra mille anni per parlare di me?”, chiede scherzando Diana. “Forse sarai Diana la scioccata, la sconvolta (the shocked)”, risponde la sua assistente, la sola interlocutrice e il solo affetto nei giorni più bui. Ed è proprio la commistione di shock e bellezza a caratterizzare quest’ultimo film biografico-politico di Larraín. Quella emanata da Diana Spencer è la luce del secolo dopo, una luce che non avrebbe fatto in tempo a vedere.
di Francesco Zucconi