Vittorio De Seta, l’inventore
Alessia Cervini, docente di storia e critica del cinema all’Università di Palermo, ricorda Vittorio De Seta a cento anni dalla sua nascita.
Vittorio De Seta, ricordato come uno dei maestri del documentario italiano, è nato a Palermo il 15 ottobre del 1923 e morto a Sellia Marina, in provincia di Catanzaro, il 28 novembre del 2011. Lo scorso anno avrebbe compiuto 100 anni. La ricorrenza è stata per molti l’occasione di ricordare – riattraversandola – l’opera complessa di un regista troppo spesso considerato unicamente come il documentarista che, insieme ad altri, ha raccontato il Sud Italia: la Sicilia, la Sardegna e la Calabria, soprattutto. De Seta, però, è stato questo e molto più. È stato – si può dire senza esagerazioni – un grande innovatore, uno sperimentatore di formati, stili, linguaggi cinematografici sempre nuovi. Per questa ragione, il suo lavoro continua a risultare vivo e attuale anche oggi, a più di un secolo dalla sua nascita.
Innovatore De Seta lo è la prima volta quando realizza, fra il 1954 e il 1955, una serie di documentari girati in Sicilia (Lu tempu de lu pisci spata, Isole di fuoco, Sulfarara, Pasqua in Sicilia, Contadini del mare, Parabola d’oro). Sono film autoprodotti che esprimono tutta la libertà creativa del regista e che deliberatamente violano la forma fin lì canonizzata del documentario. Per prima cosa, i lavori di De Seta non rispondono a nessuna funzione specifica: non fanno informazione, né propaganda, a differenza di gran parte dei documentari realizzati, nell’immediato dopoguerra, per raccontare il progresso del meridione grazie alla ricostruzione o per denunciare, al contrario, lo stato di insuperabile arretratezza in cui versavano molti parti d’Italia.
Poiché non ha una tesi da sostenere, De Seta può rinunciare a inserire nei suoi documentari il commento “fuori campo”: perché non c’è niente che le parole debbano suggerire di vedere o pensare, oltre a quello che le immagini da sole mostrano. Ciò che De Seta vuole è soltanto raccontare, con gli occhi del grande regista che è, un pezzo di mondo, mostrarlo non “così com’è” in realtà, ma “così come appare”, grazie a quel lavoro di “messa in forma” di cui il cinema, in ogni sua forma, non può fare a meno.
Dal momento in cui rinuncia al pauperismo della rappresentazione documentaria tradizionale, il giovane De Seta può scegliere di usare – contro ogni tentazione realista – un formato panoramico come il cinemascope, anche in film apparentemente piccoli come i suoi e, per la stessa ragione, il technicolor al posto del bianco e nero. Può decidere, infine, di muovere e posizionare la macchina da presa in modo che essa denunci, sempre, la presenza di un punto di vista (quello del regista) e del lavoro, per nulla scontato, che sta dietro alla composizione di ogni singola inquadratura.
Nulla resta, già dopo questi primi film di De Seta, di ciò che il documentario era stato prima di lui. Per questa ragione, il piccolo, fondamentale corpus di opere che il regista realizza, ancora nella prima metà degli anni Cinquanta, rimane una insuperata fonte di ispirazione per molto cinema contemporaneo, non soltanto in Italia. Persino una delle caratteristiche più ricorrenti in tanti film degli ultimi anni – la sostanziale e indecidibile co-appartenenza di finzione e realtà – si può dire si ritrovi già nel cinema di De Seta. Ne è un esempio, per certi versi insuperato, il primo film a soggetto che il regista realizza, Banditi a Orgosolo (1961), risultato vincitore del premio per la migliore opera prima alla ventiduesima Mostra del cinema di Venezia. Il lungometraggio, interpretato interamente da attori non professionisti, nasce in seguito ad alcuni soggiorni del regista in Barbagia, durante i quali era entrato in contatto con le esistenze solitarie dei pastori sardi, raccontate in un paio di documentari, girati nel 1958: Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia.
Dei due cortometraggi, Banditi a Orgosolo è in un certo senso la prosecuzione, lo sviluppo in senso narrativo. Ciò che De Seta in questo caso dimostra di saper fare è riconoscere, dentro la trama fitta del reale, l’esistenza di storie minime, attorno a cui costruire personaggi come quello di Michele, protagonista del film. Nelle mani di De Seta, la finzione del cinema non è uno strumento utile a inventare scenari inesistenti, quanto funzionale piuttosto a garantire profondità psicologica agli uomini di cui i documentari precedenti avevano raccontato soprattutto i gesti reiterati, le azioni quotidiane. La finzione consente di dare uno spessore a quelle figure misteriose e silenziose, per immaginarne la vita interiore, oltre che quella esteriore.
Mi pare che questa attenzione al personaggio – che è anche una delle acquisizioni ormai irrinunciabili del documentario di creazione contemporaneo – sia la cifra a cui ricondurre tutto il cinema successivo di De Seta e che proprio qui risieda il tratto più fortemente arrischiato dell’opera di cui stiamo parlando. Forse, lo dico meglio, il lavoro di costruzione del personaggio è esattamente ciò che consente a De Seta di muoversi attraverso linguaggi cinematografici diversi: dal documentario alla finzione – sono altri due i film a soggetto che realizza ancora negli anni Sessanta, Un uomo a metà (1966) e L’invitata (1969) – in molti casi ibridati in maniera sapiente.
Gli anni Settanta segnano l’ingresso della televisione nella produzione di De Seta e, ancora una volta, è l’occasione per il regista di sperimentare le possibilità di un mezzo che gli consente, meglio forse di qualunque altro, di continuare a perfezionare alcuni aspetti già emersi nei suoi lavori precedenti. Diario di un maestro (1973) è lo sceneggiato in quattro puntate che De Seta dedica al mondo della scuola, ispirandosi al romanzo autobiografico di Albino Bernardini, Un anno a Pietralata (1968). A interpretare il ruolo del maestro è Bruno Cirino, attore teatrale di professione, che affianca De Seta in una delle imprese più originali che la televisione italiana ricordi. Ne prende parte un gruppo di ragazzi di borgata, con i quali il maestro/attore si trova a dover costruire una relazione umana e professionale.
Diario di un maestro mostra esattamente questo: l’invenzione di uno spazio e di un metodo di insegnamento, capaci di coinvolgere anche chi era stato, per ragioni e in circostanze diverse, allontanato dalla scuola. Quando entra in aula per la prima volta, il maestro capisce qual è la posta in gioco della missione che ha accettato. Lo capisce il personaggio e lo capisce l’attore che sa di essere stato convocato da De Seta per un’impresa che altri avrebbero considerato impossibile. Sanno tutti che si tratta di inventare qualcosa di nuovo. La presenza ingombrante della macchina da presa impone per prima cosa che si ridisegni lo spazio della classe e si raccolga così anche l’esigenza di ragazzi che non vogliono saperne di cattedre e banchi. Sotto gli occhi del regista, il maestro e gli studenti costruiscono un mondo fatto di relazioni, sguardi, pratiche condivise, più che di vuote conoscenze. Di questo si sostanzia la scuola, ma anche il cinema, che De Seta, come altri in quegli anni, ha in mente. Ciò a cui assistiamo, increduli ancora oggi, cinquant’anni dopo la prima messa in onda dello sceneggiato, è la capacità di De Seta e del suo cinema di farsi interprete e promotore di esigenze (in questo caso quelle di un gruppo di ragazzi di borgata) che erano là, sotto gli occhi di tutti, forse, ma che fino a quel momento nessuno evidentemente era stato in grado di raccogliere. Il regista le trasforma invece in un oggetto, il film, che diventa, così, il testimone più attendibile dell’incredibile alchimia che ha preso forma davanti (e per merito) all’occhio della macchina da presa. La grazia sorprendente del cinema di De Seta è proprio questa: lasciar emergere mondi – forme di vita – che non avremmo mai visto, almeno nel modo in cui certi film ce li hanno mostrati. Sono mondi divenuti tali solo grazie all’intervento di un grande regista come Vittorio De Seta: sono inventati, forse, proprio come la scuola del Tiburtino III in cui Diario di un maestro è ambientato, ma non per questo irreali, anzi. A questa potenza creatrice del cinema, De Seta non ha smesso mai di credere, per questo i suoi film continueranno a parlare ancora a lungo.
di Alessia Cervini