Carlo Lizzani: la sua Storia al femminile tra memoria, immaginario e inediti

A dieci anni dalla scomparsa di Carlo Lizzani, Tiziana M. Di Blasio riflette su un particolare aspetto del suo cinema.

Perché rivisitare velocemente, con queste note quasi sempre essenziali, gli ultimi decenni da me vissuti? Necessità, a novant’anni, di un bilancio che oramai si profila definitivo? O forse obbedienza al suggerimento di un grande saggio, Jacques Derrida che fece emergere da tutta la sua opera, un invito: «Lasciare tracce?» […] Ma del resto questo percorso, sincronico e contorto, che emerge dal ritrovamento di tanti reperti rimasti sul fondo del cantiere, non rispecchia i tratti fondamentali del percorso storico che in questi ultimi decenni gli ha fatto da cornice? Fuori dal mio cantiere la storia procedeva lineare, come avevano sognato Hegel, Marx o Comte? Poteva suggerire slanci in avanti o prudenti attese? Non è tutto il Novecento, un groviglio di progetti e di rese?

Carlo Lizzani [1].

A Carlo nel suo decennale

Questo contributo nasce dall’esigenza di ri-percorrere tracce, ri-trovare reperti, ri-proporre frammenti portando alla luce alcune pagine inedite di Carlo Lizzani in sintonia con quanto da lui stesso enunciato[2] e che qui viene intenzionalmente riportato in prima persona trattandosi di un autore che si è volutamente esposto con la propria opera ma anche con una sistematizzazione teoretica del proprio pensiero, in una prospettiva altrettanto non lineare ma che è tesa ad intessere i dati oggettivi della Storia con gli elementi biografici e autobiografici frutto di una frequentazione amicale e professionale con l’autore.

Va preliminarmente ribadito che l’ineludibile incontro Cinema/Storia si sia configurato sin dalle origini come una complessa relazione di interferenze e di confluenze tra questioni epistemologiche e suggestioni immaginifiche pertinenti a due modalità di comunicazione differenti: parola e immagine. È acquisito, infatti, che la storia da esclusiva analisi documentale non debba più prescindere dall’immaginario poiché come puntualizza lo storico Jacques Le Goff:

Anche la più prosaica tra le carte che lo storico consulta può, nella forma come nel contenuto, essere commentata in termini di immaginario. Pergamena, inchiostro, scrittura, sigilli, e così via, esprimono tutti, più che una rappresentazione, un’immaginazione della cultura, dell’amministrazione, del potere. […] Le immagini che interessano allo storico sono immagini collettive rimescolate dalle vicissitudini della storia: esse si formano, cambiano, si trasformano. […] L’immaginario nutre e fa agire l’uomo. È un fenomeno collettivo, sociale, storico. Una storia senza l’immaginario è una storia mutilata, disincarnata[3].

Ma se l’immaginario dello storico si produce soggettivamente all’interno della propria visione del mondo, nel caso del cineasta che si trova a dover gestire un linguaggio né testuale, né verbale, ma visivo,  il processo di percezione richiede una particolare sensibilità atta ad intercettare tutta quella gamma di elementi emotivi che rendono possibile all’opera di finzione un effetto di veridicità storica ovvero la sua incarnazione nel senso più propriamente fisico del termine in quanto messa in scena di atti e di corpi. Dato fondamentale, allora, è che se nel dispositivo filmico l’evocazione prevale sull’informazione, nel testo scritto è invece l’informazione a prevalere sull’evocazione.

Lo stesso Le Goff si addentrava più specificamente sulle potenzialità del cinema di intensificare lo sguardo sulla storia con gli interrogativi seguenti:

Le cinéma enrichissait des dossiers importants des discutions du XXe sièclesur l’histoire. Allait-il enfin permettre la résurrection appelée de ses voeux par Michelet: “La résurrection intégrale du passé”. Allait-il renforcer la tendance historique dominée par les grands personnages ou au contraire favoriser l’éclosion de ce que les Allemands appelaient Alltagsgeschichte, l’histoire du quotidien? Allait-il rendre visible ce qui semblait à jamais enfoui dans les ténèbres du passé et remplacer les monuments subsistant des temps anciens dans une nouvelle vie? Allait-il être plutôt un instrument de plaisir narrative exceptionnel ou un instrument plus efficace d’analyse, de fouille et d’explication du passé? De même qu’il existait dans le domaine de la littérature et plus précisément du roman un genre ambigu, le roman historique, allait-il se développer une branche du cinéma consacrée au cinéma historique?[4].

La rappresentazione visiva della storia, infatti, definisce volti, corpi, gesti, spazi, volumi, colori, atmosfere, articolazioni sonore che la parola scritta non riesce a restituire lasciando dei vuoti considerevoli che la cinepresa sa invece colmare e far ri-vivere.

All’interrogativo posto da Le Goff sulla possibilità dell’affermazione di un ambito storico definito in quanto genere, va soggiunto che se il film cosiddetto storico è una creazione per immagini sia documentaristiche che di finzione, ambientato in un periodo storicamente determinato e riconoscibile, fornendo allo spettatore emozioni/informazioni credibili e accettate per vere, va altresì precisato che la storicità di un’opera filmica non costituisce di per sé un genere autonomo, ma si colloca in una relazione di trasversalità ai vari generi.

Interprete fra i più autorevoli di tale impostazione è senza dubbio Carlo Lizzani (1922-2013) il quale, nella sua lunga e prolifica carriera, ha consapevolmente attraversato le più differenti tipologie narrative, dalla commedia al melodramma, dal film di impegno civile e politico al western, dal noir al biopic.

A riprova degli incessanti attraversamenti storici riscontrabili nella sua filmografia e della sua conseguente autonomia intellettuale risulta emblematica la dichiarazione in premessa alla sceneggiatura Nova Magdalena – Margherita da Cortona, datata 2008, lungometraggio poi non realizzato, in cui l’autore si spinge ad affrontare tematiche apparentemente a lui lontane come la figura di una santa e un’epoca, quella medioevale, entrambe non attenzionate fino ad allora.

Spesso si sente dire che il film storico non attira, non interessa, non piace, preferendogli il pubblico storie di oggi. Avendo io scelto, al contrario, di raccontare quasi sempre storie che mettessero in scena l’Individuo a confronto con la Storia, opere sempre drammaticamente reali che potessero diventare testimonianza di un’epoca, di un periodo, di un tempo, nascenti dalla ricerca di una verità storica, reale nella cronaca quanto passionale nei suoi sviluppi, questa affermazione mi è sembrata poco più di un luogo comune, una specie di comodo alibi per evitare proprio quel lavoro di ricerca, di approfondimento, di testimonianza, che un film storico sempre comporta. Eppure, a me sembra che questo tipo di cinema, nato in me, come in altri nostri autori, parta da quella “esemplarità” morale che diede vita alla grande esperienza neorealistica nella quale nacque e si formò anche la mia personale vicenda cinematografica. Che cos’è, infatti, un film come Germania anno zero, nel quale fui coinvolto come collaboratore ed aiuto regista da Roberto Rossellini, anche se ambientato nella contemporaneità del momento, se non uno straordinario affresco storico su una delle più spaventose tragedie fisiche e morali del secolo Ventesimo?[5]

In tutta la sua filmografia Lizzani ha ripensato la relazione Cinema/Storia e, in particolare, il rapporto Cronaca/Storia[6] con uno sguardo centrato essenzialmente sul Novecento. Nella sua personale ricerca, il regista le ha dialetticamente interconnesse da un lato storicizzando fatti e personaggi di cronaca (Giuseppe Albano, detto il gobbo del Quarticciolo, Luciano Lutring, Pietro Cavallero, Graziano Mesina, James Lee Dozier, Ebe Giorgini, detta mamma Ebe), dall’altro cronachizzando i personaggi della Storia (Benito Mussolini, Edda e Galeazzo Ciano, Nikolaj Ivanovič Bucharin, Giorgio Amendola, Carlo Cattaneo, Umberto II e Maria José di Savoia).

Da tale indagine scaturisce un affresco del Novecento che l’autore definisce «il mio lungo viaggio nel secolo breve»[7], espressione ripresa da Eric Hobsbawm[8], narrato attraverso i protagonisti ma anche dagli umili, della Storia come della Cronaca: «figure spesso interscambiabili di una lettura possibile le cui tracce vengono raccolte ed interpretate come materia per un film ma anche come documento per la Storia»[9].

È stato lo stesso Lizzani a illustrare il suo percorso in un documentario dal titolo Il Mio Novecento in cui traccia in prima persona e mediante il ricorso a sequenze delle sue opere e a materiali di archivio la storia sociale, politica e culturale del secolo, dell’Italia e non solo, grazie ad una rilettura meta-cinematografica.

Chiarisce l’autore:

Durante i miei quasi 70 anni di attività nel cinema e, negli ultimi vent’anni anche nella televisione, non si è mai spenta la mia curiosità verso certi grandi protagonisti della storia del Novecento italiano. Basterebbe pensare al Mussolini di Mussolini ultimo atto; a Edda e a Ciano de Il processo di Verona; a Maria José di Maria José – L’ultima regina. Ma la curiosità si è accesa anche spesso per quelli che Manzoni definiva gli umili, cioè quelli che la storia la subiscono o ne sono protagonisti in forma minore, per esempio i contadini di Fontamara o i piccoli abitanti di via del Corno di Cronache di poveri amanti di Pratolini. E non si è mai spenta anche la mia curiosità per certi grandi protagonisti della cronaca: Il gobbo rievoca certe speranze, ma anche certe deviazioni della stagione resistenziale. È la storia di un partigiano che diventa bandito; Svegliati e uccidi suggerisce il tema della mitizzazione che i mezzi di comunicazione a volte fanno di certi personaggi della malavita ed il processo di identificazione nel proprio mito, che finiscono per subire appunto i personaggi di modestissima statura, come in questo caso Luciano Lutring. Banditi a Milano e Barbagia colgono un altro processo di mimesi, quello con l’aggressività antisistema esplosa negli anni ‘60 e ‘70 grazie ai movimenti ma anche a certe utopie del ‘68. E così Crazy Joe girato in America che racconta il tentativo, anche questo speculare a certi miti del ‘68, di sostituire i vecchi boss alla testa della mafia e di collegarsi anche ai clan malavitosi di colore tenuti lontani con disprezzo dai vecchi boss bianchi. Anche con le commedie ho cercato fatti, personaggi, con l’aiuto di sceneggiatori come Vincenzoni, Age e Scalpelli che fossero emblematici, rappresentativi di certi momenti del Novecento. Ricordo Roma bene, ricordo La Celestina P…R…, ricordo La vita agra in cui credo di aver colto, con l’aiuto naturalmente, in questo caso, del libro di Bianciardi, i momenti essenziali di quel fenomeno di risucchio che il potere e la comunicazione effettuano anche delle frange più estreme.

Attivo anche moltissimo nel documentario, ho avuto la possibilità, nel corso di mezzo secolo, di avventurarmi nelle zone calde non solo dell’Italia, ma in molti casi del mondo. In Cina per un anno nel ‘57 e in tutto l’Est asiatico nel ‘71-’72, realizzando per la televisione e per la Vides di Cristaldi alcune ore tratte dal libro di Harrison E. Salisbury, Orbit of China. In Angola, più tardi, nei mesi della decolonizzazione e della rivoluzione. Un’altra serie l’ho dedicata a donne famose come Indira Gandhi, Coretta King, Jane Fonda, Betty Friedan. Mi piace cominciare questo mio racconto antologico con alcuni brani di Cattiva, un film che racconta la storia di una donna italiana dei primi anni del Novecento che viene curata in Svizzera da Jung. La psicoanalisi, del resto, si presta a dare l’avvio ad un racconto del Novecento. Basta pensare al fatto che Freud scelse proprio il 1900 per pubblicare uno dei suoi libri più fondamentali L’interpretazione dei sogni. Mi piace poi avviare questo racconto con un personaggio femminile, perché di personaggi femminili ce ne saranno molti in questo film[10].

Caso emblematico di relazione Cinema/Storia al femminile risulta essere la memorabile sequenza della telefonata intercorsa tra Edda Ciano e il padre dopo la condanna a morte del marito Galeazzo per scongiurarne l’esecuzione descritta ne Il processo di Verona (1963) che può rievocare il monologo La voce umana di Cocteau nella trasposizione cinematografica di Roberto Rossellini, interpretata da Anna Magnani.  

Trattandosi di un film su personaggi reali Lizzani, seguendo insieme al suo sceneggiatore Ugo Pirro una precisa metodologia, si attiene rigorosamente a testi incontrovertibili che possano essere incrociati tra di loro, nel caso specifico «a parte i diari di Ciano, anche le memorie di Rachele Mussolini, le varie prese di posizione di Edda Ciano, le dichiarazioni di Mussolini»[11].

Per passare dall’informazione all’emozione occorrevano dispositivi diegetici tali da intensificare, in crescendo, l’essenza drammatica dell’evento relativo al rapporto padre/figlia/potere.

La scelta autoriale viene così attuata tecnicamente con riprese dall’alto che tendono a schiacciare il personaggio di Edda oppresso dalle circostanze mentre una luce di taglio nella mirabile fotografia in b/n di Leonida Barboni agita volto e spazio durante un monologo teso ed alterato a evocare toni da tragedia shakespeariana. Altra soluzione drammaturgica è stata quella di condensare filmicamente in una sola, diverse telefonate svoltesi in realtà a più riprese, come riferito dal regista, trasformando così il dato storico in affabulazione drammatica[12]. Lizzani facendo propria la lettura di Deleuze dell’espressione shakespeariana di un «tempo fuori dai cardini» ribadisce in maniera inequivocabile la modernità del suo cinema che affonda le proprie radici nel neorealismo italiano. Scrive Deleuze «”Il tempo esce dai suoi cardini”: esce dai cardini che gli assegnavano i comportamenti nel mondo, ma anche i movimenti di mondo. Non è più il tempo che dipende dal movimento, ma il movimento aberrante che dipende dal tempo»[13].

Una sequenza-chiave come quella sopra descritta manifesta altresì la propensione dell’autore ad indagare l’animo femminile, rivelandosi anch’essa un elemento persistente della sua filmografia, ulteriore requisito di un cinema della modernità che ricomprende all’interno del suo approccio storico la più attuale elaborazione degli women’s studies:

È di certo un’altra costante – scrive Lizzani – che avrebbe potuto addirittura guidarmi a compilare un’antologia dall’ipotetico titolo La donna italiana del ‘900 attraverso il cinema di Lizzani. Perché di personaggi femminili, nel mio cinema, ce ne sono tanti, e di tutti i ceti sociali. […] Le mie donne, messe in ordine cronologico, potrebbero anch’esse raccontare il Novecento[14].

Un’indagine ad ampio spettro quella del Lizzani regista e sceneggiatore, in particolare per Giuseppe De Santis e Cesare Zavattini, che coinvolge, attraverso un penetrante scavo psicologico, antropologico, socio-politico e di costume, una vasta gamma di caratteri a partire da figure anonime fino a personaggi noti della Storia come della Cronaca, ma sempre ri-velatori di passaggi epocali con sottolineature al femminile che stimolano una riflessione di genere sul processo di progressiva realizzazione di ruoli, funzioni e diritti. A partire dagli Anni Quaranta con l’Assia Noris de La Celestina P… R… reduce dal cinema evasivo e rassicurante dei telefoni bianchi dell’era fascista, fino alla Barbora Bobulova di Maria José – L’ultima regina, figura anticonformista e liberale all’interno della famiglia reale, passando per i volti e le tipologie che identificano i diversi decenni come quelli, oltre a quelli della già citata Mangano, di attrici del calibro interpretativo di Gina  Lollobrigida, Giulietta Masina, Virna Lisi e poi ancora di Antonella Lualdi, Annamaria Ferrero, Lisa Gastoni, Giovanna Ralli, Antonella Fattori, Stefania Sandrelli, Mariangela Melato, Lina Sastri e Giuliana De Sio.

Questa propensione alla dimensione femminile, come a quella storica risalente «alla memoria dei nonni garibaldini», appare indissolubilmente legata alla propria sfera autobiografica, cioè a una famiglia connotata da una predominanza di figure femminili «una cerchia di zie nubili o vedove», zia Angelina, zia Antonia, zia Mariquita, zia Concetta, zia Anita, zia Filomena e la governante Amelia, come lui stesso riferisce:

Questo secondo cerchio protettivo, orbitante anch’esso intorno all’evento della mia venuta al mondo (che mi rimandava, a specchio, un’immagine di me stesso singolare ma al tempo stesso effimera), aveva in casa una propaggine diretta: zia Angelina, nubile, sorella di mio padre, che viveva con noi.

Il nostro mondo famigliare di via dei Coronari (fino al 1924), di piazza Madama (fino al 1936) e di Lungotevere Mellini (fino al 1957, anno della morte di mio padre) era poi lambito dalla presenza giornaliera della zia Antonia, vedova claudicante ma instancabile, domiciliata fino alla morte in via dei Coronari e addetta ogni pomeriggio a raccontarmi favole o a leggermi il «Corriere dei Piccoli»; e dall’apparizione periodica delle zie Mariquita e Concetta, sorelle di mia madre, nubili, che risiedevano a Ceprano (dove la zia Mariquita aveva un posto d’insegnante elementare) ma soggiornavano da noi durante le feste di Natale. Di tanto in tanto poi, da Ostia, giungevano altre due zie, anch’esse nubili, Anita e Filomena, di cui ho impiegato anni a capire la parentela.

Tante figure femminili, dunque, mi ruotavano intorno, accanto a quella di mia madre, quella di mia sorella già un po’ vicemadre, e quella della zia Angelina.

Un’altra figura quasi materna sarebbe stata poi, da quando avrei avuto 6 anni, Amelia, la domestica governante venuta dal Friuli (come tante altre ragazze nubili di famiglie poverissime, destinate a diventare – diremmo oggi – «badanti»). Avrebbe assistito fino alla morte mia madre, poi mia sorella, e sarebbe stata «ereditata» come custode del focolare da mia nipote Bianca Maria.

(Chissà se la presenza femminile così forte, incisiva, in quasi tutti i miei film non sia dovuta all’impronta lasciata nel mio immaginario da questo universo di donne che hanno, in un modo o nell’altro, accompagnato tutti i miei anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Basterebbe ricordare le protagoniste di Cronache di poveri amanti, Il processo di Verona, Cattiva, Storie di vita e malavita, Roma bene, Maria José…)[15].

In un’intervista sul tema Lizzani, già nel 1985, in occasione della presentazione alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia di Mamma Ebe con un cast tutto al femminile in cui la protagonista Berta Dominguez D. è affiancata da quattro co-protagoniste: Barbara De Rossi, Stefania Sandrelli, Laura Betti, Ida Di Benedetto, analizzava anche da storico del cinema e non solo come autore, l’evoluzione della donna sia nella società che sullo schermo, respingendo la tesi secondo la quale le sue opere fossero focalizzate essenzialmente su personaggi maschili:

Vorrei correggere questa impressione che il mio cinema sia un cinema prevalentemente maschile. Lo è nel senso che ho prediletto la Storia, e la storia, o la cronaca, della violenza, questo sì. Ma ho raccontato anche le donne: dalla mia la Mangano del «Processo di Verona», la Gastoni di «Mussolini ultimo atto» le figure femminili del mio «Cronache di poveri amanti», il personaggio femminile nel «Svegliati e uccidi», ho al mio attivo un film tutto femminile sul tema della prostituzione, ed è «Storie di vita e malavita» …

[…] Dal dopoguerra fino al ‘60, con la Magnani in prima fila, e ugualmente in prima fila le figure femminili dei film di De Santis, le donne hanno avuto un ruolo di primo piano: erano donne forti, sia pure nei ruoli tradizionali di mogli e amanti, che hanno preannunciato in qualche modo quello che poi si è verificato nella società con la rivoluzione femminista. Ma quando questo tipo di donna ha cominciato ad esistere, non più nei presentimenti del cinema, ma nella realtà, lo schermo ha taciuto[16].

Degna di nota è poi la distinzione che egli opera tra i personaggi femminili positivi appartenenti alla sua filmografia del passato e quelli fragili del presente: «Vorrei raccontare il modo nuovo delle donne di vivere sole: questa loro nuova capacità o sofferenza… La devianza mi ha sempre molto interessato, e mi ha interessato la schizofrenia… »[17].

Come non ricordare altresì il Lizzani anticipatore anche di tematiche tornate di bruciante attualità come la violenza sulle donne portata in RAI con Fontamara (1980): «In quel film – sottolinea l’autore – c’è la vicenda di una ragazza che viene violentata, una cosa che non si era mai vista prima in televisione»[18].

Per l’emittente pubblica Lizzani insieme a Claudio Nasso aveva realizzato Una donna, un Paese a partire dal 1972, programma articolato in una serie di tredici interviste a donne celebri a livello internazionale nel proprio ambito, dalla politica alla scienza, dall’arte allo sport: Jane Fonda, Coretta King, Indira Gandhi, Han Su-yin, Ichiko Kamichika, Mary Quant, Betty Friedan, Margaret Mead, Wilma Rudolph, Jolanda Balas, Anna Aslan, Mary Wilson e Carla Fracci. Questi ritratti costituiscono una rilevante fonte storica per comprendere sia il clima socio-antropologico dell’epoca sia l’evolversi dell’emancipazione femminile[19].

Un altro passaggio chiave dell’attenzione di Lizzani a questo tema è confermato nel 1999 dall’omaggio a lui tributato all’interno della rassegna Il nuovo cinema europeo al femminile all’interno del Romaeuropa Festival[20] che propone una selezione di sue opere, sia di lungometraggi che di documentari. Nella sua introduzione al catalogo della rassegna Lizzani dichiarava:

Ritenendo io stesso che i percorsi dentro la foresta dei miei film (quasi cinquanta) possono essere anche altri, e dovendo scegliere, perché una retrospettiva completa di un autore prolifico è oggi quasi impossibile per qualsiasi istituzione, ho provato a proporre un altro tracciato: quello delle figure femminili che certamente nei miei film sono numerose, e che essendo radicate in vari periodi del Novecento, possono anche raccontare in qualche modo – se proposte cronologicamente – le trasformazioni, l’evoluzione della donna in questo secolo[21].

Tra la prima versione di un progetto non realizzato tratto dal libro di Giulio Andreotti dal titolo Operazione Via Appia, edito da Rizzoli nel 1998 e l’ultimo annuncio, il 20 giugno 2013, alcuni mesi prima della morte, di una versione internazionale dal titolo The Listener, s’inserisce il progetto, anch’esso rimasto nel cassetto, sul personaggio storico di santa Margherita da Cortona (1247-1297).

Merita riaffermare innanzitutto l’ampiezza dello sguardo storico e la libertà di pensiero di un autore in grado di compiere attraversamenti audaci, da un argomento prettamente ideologico come quello delle intercettazioni telefoniche sotto il regime fascista, all’introspezione psicologica sulla complessità di una scelta radicale al femminile come quella di Margherita.

Tutto ha inizio nel 2007 da una conversazione informale con l’autore che stimola la sua curiosità nei confronti di un progetto originariamente pensato da Claver Salizzato e rimasto inattuato, riguardante un personaggio femminile dell’Italia centrale del. XIII secolo. L’interesse di Lizzani sorgeva dalla novità di un argomento che includeva una duplicità testuale inerente sia al contesto storico che ad una tipologia femminile fino a quel momento estranea al suo corpus filmico  tanto da fargli concludere che fra le numerose figure di donna da lui messe in scena, dalle regine alle prostitute, mancava proprio quello di una santa.

Nella sua presentazione del progetto al MIBAC così esplicitava il suo pensiero sul personaggio e sull’epoca di riferimento:

Perché Margherita da Cortona? Si tratta – ancora una volta, per me – di un ritratto di donna. Non sono stati pochi questi ritratti nel mio cinema. Un lungo percorso che si è svolto a livelli di tipo sociale, ambientale, psicologico spesso diametralmente opposti. E indipendentemente da coordinate cronologiche. Quanti volti, quante vicende! […] Il ritratto di una donna, ma – per me – anche l’occasione fortunata per gettare uno sguardo sui tempi ricchi di ombre, di violenze, ma anche di illuminazioni, nel pensiero e nelle arti, che sono stati la cornice della sua vicenda[22].

La sceneggiatura sviluppata da Lizzani insieme alla sottoscritta e a Gianni Massironi, redatta a partire dalla Legenda de vita et miraculis beatae Margaritae de Cortona[23],del frate minore Giunta di Bevignate, narrava le vicende della giovane e bellissima Margherita, di umili origini, cresciuta a Laviano sul lago Trasimeno, la quale, dopo aver incontrato il marchese Arsenio del Monte di Valiano, primogenito della più potente e facoltosa famiglia guelfa del contado, vive con lui more uxorio per 9 anni un’esistenza spensierata nell’agiatezza ma segnata anche dalle contese tra Guelfi e Ghibellini. Diventata nel frattempo madre, Margherita alla morte improvvisa di Arsenio in seguito ad una trappola tesa dai suoi nemici, è costretta a tornare alla casa paterna da dove però viene respinta per aver disonorato la famiglia con i suoi comportamenti. Liberatasi dai suoi beni materiali abbraccia la via della povertà, una scelta che, come motiva Lizzani, «non resta sterile. La porta a battersi per la difesa degli umili, e per l’assistenza alle tante vittime dei conflitti sanguinosi che lacerano la sua terra»[24]. La giovane donna si trasferisce a Cortona dove fonda l’Ospedale della Misericordia, un luogo dove i feriti, i malati e i diseredati potevano trovare assistenza e rifugio. Nell’ultima fase del suo tracciato biografico Margherita si ritira da penitente in un’angusta grotta sul Monte Egidio che sovrasta Cortona attirando, per la fama crescente, una folla di pellegrini. Tra di loro un giovane poeta fiorentino in cui la tradizione ha voluto riconoscere Dante Alighieri. Divenuta Terziaria dell’Ordine dei Frati Minori e considerata dopo Chiara e Francesco la terza luce dell’Ordine, si spegne il 22 febbraio 1297, in fama di santità. Nel 1728 papa Benedetto XIII proclama Margherita da Cortona, con l’appellativo di Nova Magdalena per l’analogia della sua vita con quella del personaggio biblico della Maddalena, ufficialmente santa.

Lizzani è il primo a chiedersi in che modo risolvere la sfida narrativa di un personaggio che considera dominato da un forte complesso di colpa.

Non c’era certamente la psicanalisi ad alleviarlo, il senso di colpa, ai tempi di Margherita da Cortona. E lontano da me l’idea di una facile evocazione di questa pratica terapeutica per illuminare il percorso esistenziale di un personaggio come Margherita. L’uso della psicanalisi come passepartout per interpretare i moventi, le passioni, i tormenti degli esseri umani fin da quando l’evoluzione li ha messi in condizione di agire nel mondo, è un tipo di pratica interpretativa troppo facile e che qualsiasi analista serio, credo, respingerebbe.

Ma è certamente il senso di colpa la nota dolorosa, straziante, ossessiva, che percorre tutta la biografia di Margherita da Cortona.

Giovanissima, trasognata contadina, accetta, per amore, la condizione di concubina di un affascinante giovane nobile, e diventa madre. Ma dopo la morte prematura dell’amante, scacciata dalla sua residenza, e ripudiata dalla sua stessa famiglia, ripiomba nella povertà. Una condizione che accetta come prezzo da pagare per le trasgressioni fino ad allora commesse. Un prezzo che però non basta ancora a spegnere la sua ossessione. […]

Ma anche questo non le basta. E la sua sete insaziabile di autoflagellazione sfocia nel misticismo, nei colloqui diretti con Dio, preludio alla santità consacrata nel 1700.

Un atroce dubbio ha tormentato, però, fino alla fine, Margherita. Questo contatto diretto con Dio non sarà frutto di quella vanità che, fin da bambina, è stata una componente fondamentale della sua personalità? Un labirinto da cui non uscirà mai?[25].

I colloqui intercorsi durante la stesura del copione hanno fatto emergere le intenzioni autoriali nel delineare il carattere del personaggio. La metodologia storica avrebbe impedito di utilizzare le categorie psicanalitiche applicate per Cattiva, considerandole per l’epoca veri e propri anacronismi come da lui chiarito in presentazione. Per restituire elementi dell’immaginario medievale in sceneggiatura era previsto allora un ampio ricorso a tutti quei dispositivi formali dell’universo simbolico del Tardo Medioevo, dalla luce e dal colore ai rituali e all’ambito figurativo, musicale e coreografico con accenni al dramma liturgico della Visitatio Sepulchri e alle laudi, componimenti sacri dialettali influenzati dalla musica dei trovatori nel ritmo, nella linea melodica e nella notazione.

Lizzani coglie altresì l’occasione per riflettere su una questione essenziale per la concezione stessa di film storico nella sua declinazione di film in costume: «sto seguendo in questo periodo un mio ragionamento sul film in costume e sulla questione più generale del nuovo linguaggio e del superamento del naturalismo a cui le riflessioni in relazione alla nuova edizione del mio Cinema Italiano mi hanno portato»[26].

Acquisito il fatto che il film storico non è un genere a sé stante ma trasversale ai diversi generi, quindi perfettamente idoneo a definire l’eclettica filmografia dell’autore, Lizzani già nel 1970 poneva in via di principio la questione del film cosiddetto in costume attraverso l’annoso interrogativo di Michelet qui riproposto da Le Goff sulla possibilità di una resurrezione integrale del passato.

Lizzani iniziando la sua analisi dal Satyricon di Fellini (1969), per continuare con la Medea di Pasolini (1969) e con l’Othon di Jean-Marie Straub (1970), entrando nello specifico cinematografico, si sofferma su come sia possibile superare il naturalismo ed il realismo inevitabilmente connessi alla settima arte. Sia la trasfigurazione simbolica felliniana nell’astrazione di una gestualità reinventata e nella deformazione dei volti, sia la ricostruzione magica, misteriosa e favolosa pasoliniana, sia la sottrazione sistematica di ogni elemento suggestivo straubiana risultano parimenti soluzioni intellettualistiche che non risolvono il problema del film in costume, ma si configurano piuttosto come sperimentazioni sull’elasticità del linguaggio, valide per un riscatto dal naturalismo e dalla riproduzione mimetica.

Inevitabile chiedersi a questo punto quale sarebbe stata la soluzione formale che il regista avrebbe adottato per il suo film in costume a quasi quarant’anni dalle osservazioni sopra riportate e dopo aver girato Maria José L’ultima regina, la cui collocazione temporale rendeva disponibili ben altre fonti. Ma che cosa in particolare attirava l’intellettuale comunista Lizzani del personaggio Margherita?

Sicuramente non tanto l’aspetto mistico quanto segnatamente, gli snodi introspettivi della sua condizione esistenziale marcata da tormenti e devianze nonché la ricaduta sociale della sua scelta. Margherita, umile tra gli umili, donna forte e radicale, poteva legittimamente rientrare nell’accezione manzoniana di tale termine tanto cara all’autore. Donna del popolo che per un segmento della propria vita si lega alla nobiltà locale per ritornare poi ad incarnare quell’ideale di povertà che è una delle cifre del XIII secolo con la nascita degli Ordini Mendicanti, in un contesto contraddistinto anche dalla corruzione della Chiesa. Una scelta penitenziale quella di Margherita che rievoca un variegato universo femminile costellato di recluse e di murate vive, ma anche di:

varie ed eterogenee rappresentanti di una dinamica sociale incentrata sul fenomeno urbano, dove la pressione dei nuovi ceti emergenti sui vecchi depositari del potere rifondava meccanismi di aggregazione, reinventava formule associative che nella veste religiosa trovavano più immediata espressione, come nelle confraternite o nei gruppi di devoti che si stringevano attorno agli Ordini Mendicanti inventando il concetto di «tertius ordo», compromesso tra lo stato di perfezione regolare e le necessità quotidiane del secolo, della famiglia e degli affari. Compromesso tra il contemptus mundi che aveva caratterizzato l’ascesi precedente e la nuova ideologia della santificazione del secolo attraverso le opere con la quale si dava vita ad una vera rivoluzione sul piano del costume religioso ma anche su quello civile, grazie al dispiegarsi di tutta una serie di opere di misericordia e assistenza con cui si ponevano le basi per la nascita di veri e propri servizi sociali, come gli ospedali. […] Questa disponibilità al religioso in una società femminile condannata all’inferiorità giuridica e morale dalla pesante tradizione misogina della Chiesa – una disponibilità che si era rivelata anche nella adesione al messaggio ereticale – a sua volta rivelava, al di sotto della aderenza a questo o quell’altro movimento devoto, la filigrana di una serie di fratture nei costumi sociali che trovavano spiegazione nelle vaste aree di marginalità incrementate dalla dinamica demografica cittadina e dall’evolversi dei suoi sistemi di relazioni[27].

Lizzani, richiamando il concetto di longue durée maturato da Fernand Braudel sulla scia di Bloch e Febvre, afferma di aver trovato proprio in essa la motivazione del suo forte ed intenso fascino «per i “punti di rottura”, i “salti” della storia (le rivoluzioni oggi, il buio nel medioevo ieri»[28].

Lo sguardo di Lizzani si sarebbe rivolto in tal modo all’intera biografia di Margherita in tutto il suo tracciato fatto di ascese e di cadute rifiutando i rischi del biografismo, del calligrafismo e dell’agiografia pur nella volontà di non condensare la narrazione su singole componenti della sua vita, come avveniva, ad esempio, in Francesco giullare di Dio (1950), di Rossellini, suo maestro, in cui il santo viene presentato attraverso i suoi Fioretti. Lizzani si sarebbe orientato piuttosto verso altre chiavi ermeneutiche come l’opzione iconografica e la sfera sociale.

Un’intenzione questa esplicitata nell’incipit prima dei titoli di testa:

Nella penombra rischiarata dalle tremolanti fiammelle di alcuni candelabri s’intravede un ricco, signorile arredamento…Tendaggi…
Arazzi…
Tappeti…
Su un tavolo, in uno scrigno tempestato di pietre preziose, brillano gioielli di pregiata oreficeria, perle, rubini, smeraldi… accanto, una fila di ampolle di diverse dimensioni e colori, ricolme di profumi, essenze… spazzole, pettini in legno e corno…
Seduta indolentemente, svelata dalle pieghe chiare e scure della veste sfarzosa, come una Maddalena di Georges de la Tour, una giovane donna di splendide fattezze, dai lunghi capelli sparsi sulle spalle, allunga una mano per prendere, poggiato sul piano del tavolo… uno specchio…
Una voce maschile fuori campo, il timbro profondo e caldo, recita in latino

VOCE MASCHILE (off)
… Te feci speculum peccatorum…[29]

In effetti tale collaborazione risalente al 2007/2008 trova i suoi prodromi estetici in un’occasione similare del 2001, quando Lizzani chiede di potersi ispirare al volume Veronica il mistero del Volto. Itinerari iconografici, memoria e rappresentazione[30], pubblicato in occasione dell’anno giubilare del 2000, per un corto della durata di 30”, Il gesto di Veronica (2002), per un excursus attraverso le opere d’arte proposte nel libro, da presentare all’interno di un progetto collettaneo per una campagna di sensibilizzazione sulla solitudine, dal titolo Giornate di soli, a cui hanno partecipato fra gli altri Giuseppe Tornatore, Maurizio Nichetti, l’attore Silvio Muccino e la cantante Elisa.

Il corto si concludeva con la seguente scritta: «Audacia, orgoglio, solitudine: così l’arte – dai bizantini ai fiamminghi, ai grandi del Novecento: Matisse, Dix, Kokoschka, – ha raccontato Veronica».

L’attenzione di Lizzani a questa figura che, secondo la tradizione, deterse il volto di Gesù durante la via crucis ed il cui gesto è stato perpetuato in tutte le arti nel corso dei secoli, fino a farla assurgere al ruolo di patrona dei fotografi, nasce da una triplice motivazione: il tema dell’immagine tout court, la trasposizione artistica, il legame tra l’immagine e il femminile. Scrive l’autore:

Dietro la carrellata iconografica che nel corso dei secoli ha consacrato il gesto di Veronica emerge poi – e il breve filmato lo mette in luce – un significato ancora più profondo: con Veronica, la donna si propone non solo come generatrice di vita, ma come essere capace di trasmetterne l’immagine, l’impronta, il doppio. Una scommessa o forse un destino da protagonista nell’era che vede l’immagine addirittura più protagonista dell’essere[31].

Questa suggestione di Lizzani non è estemporanea, ma parte da una visione più ampia che riguarda l’immagine, nelle sue diversificazioni e nelle sue trasversalità, già sistematizzata nel saggio teorico Il discorso delle immagini. Cinema e televisione: quale estetica?, risalente al 1995[32].

Una trasversalità evidenziata anche da Vincenzo Vita quando nel definire il regista «un caso preclaro di polimedialità moderna e post-moderna. Dove alto e basso si specchiano e modificano a vicenda»[33] osserva che «In verità, a Lizzani non piacevano definizioni chiuse e stantie, incapaci queste ultime di cogliere le trasversalità espressive di un immenso campo di segni segnato da evoluzioni creative e da paradigmi che sovrastano – superandole – le classificazioni di una desueta ortodossia»[34].

Questa vocazione alla polimedialità è da ricercarsi all’interno della sua stessa biografia, in quel bisogno urgente di comunicazione tra le varie discipline artistiche così frequente nella sua epoca: «Questo bisogno di comunicazione – puntualizza Lizzani – riuniva insieme pittori, scrittori, musicisti e uomini di cinema. È anche da questo che nasce il neorealismo, da un’ibridazione esplosiva di futurismo, metafisica, surrealismo, avanguardie letterarie e musicali»[35].

Lizzani ritorna sull’argomento aggiungendo anche altri particolari autobiografici legati alla moglie, la pittrice Edith Bieber, così com’era avvenuto anche per il suo interesse per la Storia, maturato all’interno della famiglia di origine:

insomma questo retroterra di cultura, questa frequentazione di altri linguaggi c’era un po’ in tutti gli intellettuali della mia generazione. Forse io l’ho adottata per un periodo che è andato al di là della stagione neorealista e per questo poi ho scritto, ho continuato a frequentare anche gli altri linguaggi. Forse è dovuto anche al fatto che io ho sposato una pittrice, che mi ha forzato a frequentare le mostre e a ricordarmi che non c’è solo il cinema, ma ci sono le arti figurative[36].

Verrebbe da concludere che una minuscola clip in uno sterminato panorama filmico come quello di Carlo Lizzani potrebbe apparire paradossale…

In realtà essa non fa che ribadire la circolarità di un percorso a tutto campo ancora da frequentare, sulle tracce di quel moltiplicatore di senso che è il suo cinema.

«Ma, in fondo, il segreto della dinamica di ogni linguaggio non consiste proprio nello sforzo di declinare l’indeclinabile, di racchiudere l’incontenibile, di ricomporre un’unità perduta?»[37].


[1] C. Lizzani, Il giro del mondo in 35 mm. Un testimone del Novecento, Rai-Eri, Roma 2012, pp. 5, 9.

[2] Cf. C. Lizzani, Il giro del mondo in 35 mm. Un testimone del Novecento, cit., pp. 5-18.

[3] J. Le Goff, L’immaginario medievale, (ed. or. L’imaginaire médiéval,1985), tr. it. A. Salmon Vivanti, Editori Laterza, Roma – Bari 20013, pp. VIII, XIII.

[4] J. Le Goff, Prefazione a T. M. Di Blasio, Cinema e Storia. Interferenze/Confluenze, Viella, Roma 2014, qui in versione originale consegnata personalmente all’autrice a Parigi il 18 febbraio 2013 (Archivio Di Blasio). Il volume è stato congiuntamente dedicato a Jacques Le Goff e a Carlo Lizzani.

[5] C. Lizzani, Dichiarazione dell’autore, allegata al copione Nova Magdalena – Margherita da Cortona, Roma 2008 (Archivio Di Blasio, Roma).

[6] Sulla relazione cronaca/storia in Lizzani, cf. V. Giacci, Carlo Lizzani, Il castoro cinema, Milano 2009, pp. 52-59.

[7] C. Lizzani, Il mio lungo viaggio nel secolo breve, Giulio Einaudi editore, Torino 2007.

[8] Cf. E. J. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, Michael Joseph, London 1994.

[9] T. M. Di Blasio, Cinema e Storia. Interferenze/Confluenze, cit., p. 217.

[10] C. Lizzani, Il mio Novecento, a cura di V. Giacci e V. Zagarrio, ACT Multimedia, Roma 2010, 180’.

[11] C. Lizzani, Conversazione su Maria José, in G. De Santi, Carlo Lizzani, Gremese Editore, Roma 2001, p. 107.

[12] Videontervista a Carlo Lizzani, a cura di Tiziana M. Di Blasio, Roma, 19 novembre 2011.

[13] G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, (ed. or. Cinéma 2. L’image-temps,1985), tr. it. L. Rampello, Ubulibri, Milano 1989, p. 54.

[14] C. Lizzani, «La mia idea di Storia». Carlo Lizzani intervistato da Vito Zagarrio, Roma 2010, in La Storia e le storie. Il Novecento secondo Carlo Lizzani, a cura di A. Anile, G. Gosetti, G. Spagnoletti, Centro Sperimentale di Cinematografia-Edizioni Sabinae, Roma 2023, p. 217.

[15] C. Lizzani, Il mio lungo viaggio nel secolo breve, cit., pp. 20-21.

[16] C. Lizzani, Ho sempre raccontato il mondo dalla parte di Lei, intervista a cura di A.M. Mori, in «La Repubblica», 24 agosto 1985, pp. 6-7.

[17] C. Lizzani, Ho sempre raccontato il mondo dalla parte di Lei, intervista a cura di A.M. Mori, cit., p. 7.

[18] C. Lizzani, «La mia idea di Storia». Carlo Lizzani intervistato da Vito Zagarrio, Roma 2010, in La Storia e le storie. Il Novecento secondo Carlo Lizzani, a cura di A. Anile, G. Gosetti, G. Spagnoletti, p. 217.

[19] https://www.raiplay.it/programmi/unadonnaunpaese

[20] Omaggio a Carlo Lizzani, Le figure femminili nel cinema di Carlo Lizzani, rassegna Il nuovo cinema europeo al femminile, Romaeuropa Festival, a cura della Fondazione Romaeuropa – arte e cultura e del CSC – Cineteca Nazionale, Palazzo delle Esposizioni, Roma 27 ottobre/6 novembre 1999.

[21] C. Lizzani, Omaggio a Carlo Lizzani. Rassegna Il nuovo cinema europeo al femminile, catalogo Romaeuropa Festival, a cura di G. Baldisseri, Roma 1999, s.p.

[22] C. Lizzani, Presentazione dell’autore, allegata al copione Nova Magdalena – Margherita da Cortona, Roma 2008, (Archivio privato Di Blasio), qui riportata per esteso.

[23] Legenda de vita et miraculis beatae Margaritae de Cortona, a cura di F. Iozzelli, Bibliotheca franciscana ascetica Medii Aevi, Editiones Collegii San Bonaventurae ad Claras Aquas, Grottaferrata 1997.

[24] C. Lizzani, Presentazione dell’autore, allegata al copione Nova Magdalena – Margherita da Cortona, cit.

[25] C. Lizzani, Presentazione dell’autore, allegata al copione Nova Magdalena – Margherita da Cortona, cit.

[26] C. Lizzani, Il giro del mondo in 35 mm. Un testimone del Novecento, cit., p. 53.

[27] A. Benvenuti Papi, La santità al femminile: funzioni e rappresentazioni tra medioevo ed età moderna, in Les fonctions des saints dans le monde occidental (IIIe-XIIIe siècle), Actes du colloque organisé par École Française de Rome, 27-29 octobre 1988, Collection de École Française de Rome, n. 149, Roma 1991,pp. 469-470.

[28] C. Lizzani, Il giro del mondo in 35 mm. Un testimone del Novecento, cit., p. 121.

[29] C. Lizzani, G. Massironi, T. M. Di Blasio, Nova Magdalena, sceneggiatura, Roma 2008 (Archivio Di Blasio, Roma).

[30] T. M. Di Blasio, Veronica il mistero del Volto. Itinerari iconografici, memoria e rappresentazione, Città Nuova Editrice, Roma 2000.

[31] C. Lizzani, Il gesto di Veronica, soggetto, Roma 2002 (Archivio Felix Film, Roma).

[32] C. Lizzani, Il discorso delle immagini. Cinema e televisione: quale estetica?, Marsilio Editori, Venezia 1995.

[33] V. Vita, L’autore polimediale, lo storico regalato al cinema, in La Storia e le storie. Il Novecento secondo Carlo Lizzani, a cura di A. Anile, G. Gosetti, G. Spagnoletti, cit., p. 169.

[34] V. Vita, L’autore polimediale, lo storico regalato al cinema, in La Storia e le storie. Il Novecento secondo Carlo Lizzani, a cura di A. Anile, G. Gosetti, G. Spagnoletti, cit., p. 169.

[35] C. Lizzani, Carlo Lizzani: il cinema e il secolo breve, intervista a cura di P. Spila e B. Torri, in «CineCritica», 54/55 (2009), p. 10.

[36] C. Lizzani, Tre volte nella polvere, tre volte… Intervista a Carlo Lizzani, a cura di V. Zagarrio, in Carlo Lizzani. Un lungo viaggio nel cinema, a cura di V. Zagarrio, Marsilio Editori, Venezia 2010, p. 31.

[37] C. Lizzani, Il discorso delle immagini. Cinema e televisione: quale estetica?, cit., p. 84.


di Tiziana M. Di Blasio
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