Anna vs Anna
La favorita ha il suo cuore nella scelta di narrare di Anna, ultima tra le regine di casa Stuart. Tra Barry Lyndon e Compton House il regista greco cerca di trovare la propria strada nella rappresentazione della storia britannica.
Nel proliferare dei film e delle serie televisive sui regnanti inglesi, sempre più cospicuo, il discorso, complici anche le opere shakespeariane, si concentra soprattutto su alcuni re, come Riccardo III, Enrico VIII, Elisabetta I (nonché la sua contendente Maria Stuarda), Vittoria e addirittura Elisabetta II (la cui avanzata età sancisce ormai la possibilità di una lettura critica del suo operato). Da questo punto di vista, La favorita appare come un prodotto atipico, per la scelta di una regina, Anna, l’ultima sovrana del casato Stuart, che ha regnato solo 13 anni (dal 1702 al 1714) e alla quale il cinema non ha mai offerto grande attenzione.
Gli elementi vincenti di questo film pluripremiato – tra l’altro, a Venezia, ai Golden Globe, ai BAFTA e agli Oscar – sono molteplici, a cominciare dalla bravura delle tre protagoniste e da come viene efficacemente spiegato il connubio strettissimo fra potere e sesso, quest’ultimo, in quel contesto, mezzo privilegiato per entrare nelle grazie della Regina e quindi per operare una rapida, fortunata ascesa sociale. E, in effetti, ciò che più rimane impresso allo spettatore è lo spietato braccio di ferro, senza esclusioni di colpi, tra la risoluta Sarah e l’astuta Abigail, quasi una riedizione settecentesca di Eva contro Eva: un gioco di potere, tutto femminile, fatto di perfidia, malizia, manipolazioni, concessioni, soprusi o umiliazioni, fino all’annientamento dell’avversario. Nello stesso tempo, fa specie la subalternità degli uomini, fantocci vanesi, agghindati orribilmente, con volti imbiancati e ingombranti parrucche, più interessati a frivoli divertimenti (dalla corsa delle oche allo scagliare arance su un malcapitato nudo) che a prendere le redini del comando.
La favorita è difficilmente comparabile con i precedenti film, greci e non, di Yorgos Lanthimos, il quale qui per la prima volta si è confrontato con un tema storico, lavorando inoltre con una sceneggiatura non sua. Di conseguenza, legato stavolta a un contesto ben definito, ha modificato il suo sofisticato stile, generalmente visionario, freddo e un po’ astratto.
Questo non vuol dire che si sia sottomesso alle regole usuali del cinema in costume, anzi. Il film si distacca con forza dagli altri film del genere – ai quali la fastosa scenografia e i ricchi costumi pure sembrano rimandare – non solo per alcuni spunti architettati ex nihilo, sui quali poggia più che mai l’ironia e il sarcasmo che sottende tutta l’opera, ma soprattutto per una messa in scena francamente originale, che si presenta più come un discorso politico che tout court storico.
Il racconto è fortemente condizionato da scelte ben precise quanto audaci del regista, che lo plasma a proprio piacimento. Il film si concentra quasi interamente nello spazio circoscritto della corte della Regina Anna, facile metafora di altre situazioni, anche differenti, che riguardano il Potere. È girato quasi sempre in interni – la magnifica villa giacobiana di Hatfield House, nell’Hertfordshire – in ambienti claustrofobici, al buio particolarmente cupi, in cui si rimpallano le maldicenze, i pettegolezzi, i processi di seduzione, le punizioni, gli avanzamenti di livello e altro. La luce, grazie all’ottima fotografia di Robbie Ryan, scaturisce naturalmente dall’illuminazione delle finestre e dalla fioca luce delle candele (che danno luogo alle scene più significative). Ne scaturisce un’atmosfera particolare, che dà alla magione – drasticamente separata, alla Downton Abbey, in due mondi separati e difficilmente comunicanti, la corte e la servitù – il senso di un universo a sé stante nonché un’intricata scacchiera su cui un manipolo di persone, più attente in verità ai propri tornaconti che a quelli del paese, governa le sorti della Gran Bretagna (in quel periodo alle prese con una rovinosa guerra con la Francia).
La narrazione, tutt’altro che lineare, è zeppa di risvolti simbolici – si pensi alla presenza dei conigli, anche nell’ultima scena – e di una schietta fisicità (il fango, la merda, il cibo, il vomito, il sangue) che colora fortemente le situazioni e i rapporti interpersonali.
La presenza del regista è palpabile. Rispetto agli altri film di Lanthimos, abbastanza statici, stavolta c’è una macchina da presa incredibilmente dinamica e duttile – che si compiace di ralenti, accelerazioni, zoom a schiaffo o veloci carrellate – corroborata da un montaggio serrato e incalzante e da una musica efficace nel creare suspence.
A farla da padrona è sicuramente l’uso insistito, inedito nel cinema di Lanthimos, del grandangolo, a volte addirittura fish-eye (che fa pensare alla pittura di Parmigianino), che produce notevoli effetti di distorsione. Questi grandangoli, che creano un ovvio senso di straniamento nello spettatore, appaiono in prima istanza il mezzo del regista onnisciente per dominare ogni cosa, ogni anfratto nascosto; nello stesso tempo, sono anche, forse, un mezzo per sottolineare l’aberrazione dei fatti narrati. Gli esseri umani, quando non sono rimpiccioliti in quel contesto deformato, vengono in genere visti attraverso particolari punti di vista, correlati alle dinamiche del potere, come quelli ribassati di Sarah e di Abigail oppure i primi o primissimi piani del corpo disfatto della regina. Cosa che sottolinea la fondamentale importanza nell’assunto degli sguardi (e, più in generale, dell’atto del vedere, una delle chiavi di lettura del film).
Nel rievocare un Settecento che si presta naturalmente a ricostruzioni opulente, è facile chiamare in causa la pittura. D’altra parte, il riferimento pittorico – nei fatti, d’obbligo nei film storici – è un veicolo privilegiato per penetrare a fondo nel passato, nonché un indispensabile mastice che collega organicamente le varie vicende. Qui Lanthimos sceglie di evitare la citazione pittorica fine a sé stessa, con il solo fine di impreziosire l’inquadratura, optando per un’utilizzazione più creativa, non meramente figurativa, che investe lo spazio così come la luce e i colori. Più che ai grandi pittori del Settecento inglese, pure chiamati in causa – come Gainsborough, Hogarth o Reynolds – Lanthimos si rifà soprattutto a Joseph Wright of Derby e ai suoi delicati trattamenti luministici, particolarmente evidenti nelle scene a lume di candele. Del resto proprio a Wright of Derby si rifece Stanley Kubrick in Barry Lyndon, sicuramente uno dei film che più ha ispirato il regista greco per l’atmosfera dominante e, in particolare, proprio per l’uso spregiudicato delle scene illuminate dalla sola luce delle candele.
Tra i tanti film tenuti presenti da Lanthimos il più rilevante è però senza dubbio I misteri del giardino di Compton House di Peter Greenaway, col quale condivide non poche cose: la sontuosità visiva, le battute feroci e perfide, l’ordito di raffinati e sadici intrighi nonché, più che mai, la greve corporeità dei personaggi maschili, appesantiti dai belletti e dai pesanti costumi.
di Vincenzo Patané