35 secondi fatali
“Ogni immagine ha la sua storia”, affermava Chris Marker, ma è anche vero che “ogni storia ha la sua immagine” in un Novecento in cui queste hanno il potere di certificare e costruire memoria collettiva.
È il 24 ottobre del 1940; Hitler, di ritorno dall’incontro con Franco, si ferma a Montoire-sur-le-Loir per incontrare Philippe Pétain. A riprendere l’evento un operatore tedesco e Heinrich Hoffman, il fotografo personale del dittatore nazista: girano pochi metri di pellicola e qualche scatto; non si vuole dare né si dà grande importanza all’incontro, in fondo si tratta di un miserevole vinto. I 35 secondi di filmato sono inseriti nel Deutsche Wochenschau del 30 ottobre che celebra il viaggio in Spagna del dittatore, mentre i giornali francesi danno risalto alla notizia, ma cercano di minimizzare: al generale “sono stati dati gli onori militari”, un incontro segnato da “un’atmosfera di alta cortesia” per il capo di Stato francese, ecc. A pochi mesi dalla disfatta un incontro “cordiale” coi vincitori potrebbe generare reazioni negative.
Le immagini di Montoire non sembrano in ogni caso aver turbato un personaggio importante del cinema come Louis Lumière che, in un’intervista in prima pagina su «Paris-soir», dichiara che “sarebbe un grande errore rifiutare il regime di collaborazione [coi nazisti]”, e nemmeno inquieta Abel Gance che paragona Pétain a Jeanne d’Arc, capaci entrambi di rendere sacra la Francia. Che Pétain avesse già il 3 ottobre del ’40 promulgato la legge sullo status degli ebrei che, all’articolo 5, vietava loro di esercitare qualsiasi attività cinematografica non sembrava incrinare la popolarità del saveur de la patrie nel mondo del cinema.
Nel novembre del ’40 i pochi secondi sono inseriti nel cinegiornale Actualités mondiales proiettato nella Francia occupata e nel dicembre in France Actualités per i territori “liberi” il cui commento audio segue la linea della carta stampata. Come sia andata veramente tocca agli storici dirlo, ma quella stretta di mano è destinata a diventare l’icona indelebile del tradimento. Come sostiene Didi-Huberman, una semplice immagine “inadeguata ma necessaria” può diventare “l’occhio della storia” e far sì che l’evento faccia corpo con l’immagine diventando la faccia che ne nutre la comprensione e lo renda evidente. La “tenace vocazione” delle immagini a rendere visibile (quanto a manipolare) ciò che le parole possono mascherare è in questo caso dato da un semplice gesto: una stretta di mano. Un vinto non dà la mano a un vincitore a pochi mesi dalla disfatta: i pochi secondi del filmato elevano l’azione dei corpi e il gesto a icona.
Serge Daney sosteneva che lo schermo è il luogo d’incontro del mio corpo con quello dell’Altro, con il doppio simulacrale delle immagini, se questo è vero allora vedendo i 35 secondi di Montoire i francesi percepivano di dare la “loro” mano a Hitler perché Pétain era la Francia in carne e ossa (seppure in immagine), era loro stessi. Quella stretta di mano disonorava, dunque, quasi personalmente i francesi antifascisti, ma onorava i filonazisti e i convinti collaborazionisti francesi, mentre gli indifferenti tutt’al più la giustificavano come il double jeu di Pétain. La brevissima sequenza alla stazione di un paesino della provincia della Loira era però destinata nel tempo a incidere nel giudizio di memoria del governo di Vichy.
Nel novembre del 1944, con Parigi liberata dai nazisti pochi mesi prima, le forze partigiane editano il cinegiornale France Libre Actualités che inizia con la sequenza girata dagli operatori tedeschi a Montoire. L’evento è trasformato in memoria mostrando dapprima come la piccola e sconosciuta cittadina sia “entrata nella storia” grazie all’incontro Pétain-Hitler e con un commento sonoro che segna il giudizio: «Il vincitore di Verdun è diventato il vinto di Montoire». La Resistenza non lo condannava dunque per Verdun e tutti i suoi macelli, ma per aver tradito il Paese stringendo la mano all’odiato nemico.
“Ogni immagine ha la sua storia”, affermava Chris Marker, ma è anche vero che “ogni storia ha la sua immagine” in un Novecento in cui queste hanno il potere di certificare e costruire memoria collettiva. Il problema è che si voleva che la sequenza fosse più “informativa” di quanto non lo fosse originariamente. Si decise di manipolare le immagini inserendo in montaggio un primo piano di due mani che si stringono: poco importava che fosse manifestatamente surrettizio l’inserto per differenza di luce e di qualità, bisognava rendere ipertrofico il documento affinché diventasse evidente il tradimento, che i francesi non avessero dubbi. L’aggiunta non trasgrediva la fenomenologia dell’accadimento (era davvero così accaduto), ma significava di fatto dare drammaturgia alla sequenza che si trasforma così nel documento delle intenzioni politiche degli autori: condannare Vichy senza appello.
Finita la guerra, Pétain cercò di giustificarsi sostenendo che aveva solo sfiorato le mani di Hitler, ma la fotografia che lo ritrae frontalmente non lasciava dubbi, era il documento decisivo. Come sosteneva Béla Balász, la fotografia, il cinema, sono arti del “far vedere” che non piacciono a chi ha molto da nascondere.
di Giuseppe Ghigi